La Storia-Villa Cernigliaro
La Villa delle Punte
Costruita negli anni ottanta dell’ottocento, in stile Liberty, su commissione della famiglia Vercellone, fu in seguito acquisita dal notaio torinese
Annibale Germano e più tardi intorno al 1945 dal notaio siciliano Carmelo Cernigliaro.
Negli Anni 20 fu rivisitata dall'architetto Giovanni Chevalley che vi apportò quella suggestione settecentesca che ancora oggi si assapora.
Villa Cernigliaro, la Dimora storica antonicelliana di Sordevolo, nel Biellese, è vincolata dal Ministero della Pubblica Istruzione e tutelata della Sovrintendenza per i Beni Architettonici e il Paesaggio del Piemonte di Torino. All'inizio del secolo appena trascorso e in pieno regime fascista, grazie a Franco Antonicelli, la Villa diviene luogo d'incontro e di pensiero politicamente dissidente d’intellettuali come: Ginzburg, Bobbio, Pavese, Einaudi, Frassinelli, Croce, Mila, Zini, Pirandello, Montale, Colonnetti, Frassati, Linati, Levi, Tessa e molti altri.
Il “buen retiro” di Sordevolo negli anni del fascismo
“La rabbia impotente per le condizioni, soprattutto morali, in cui il Mussolini teneva gli italiani, cresceva e mi spinse verso un gruppo di giovani che a codeste condizioni cercavano di reagire. Essendo di temperamento riflessivo e tutt’altro che entusiasta - soffrivo anzi allora di una timidezza patologica - mi rendevo ben conto che i nostri sforzi di smuovere l’atmosfera plumbea in cui si stagnava erano destinati a fallire nell’apatia generale, ma mi pareva di dover agire così per non dover vergognarmi di me stesso”. Così si esprimeva in una memoria autobiografica Luigi Grosso, ricordando gli anni milanesi dal 1930 al 1940, e la sua vicenda, analoga a quella di altri scultori, può illuminare la condizione di tutti quegli intellettuali che non intesero accettare, nell’Italia degli anni Venti e Trenta, la dittatura del fascismo; è una testimonianza interessante in quanto coglie un aspetto importante della lotta antifascista e trova corrispondenza in alcune notazioni di Franco Antonicelli.
“L’antifascismo non fu soltanto una serie di azioni politiche o di colpi di mano; per lungo tempo fu un poco visibile ma esistente baluardo di coscienze, che rendeva difficile al regime affondare ed estendere le sue radici”, un “- collettivo - spirituale e morale che teneva viva - un’altra Italia - accanto a quella ufficiale”.
A Torino quest’“altra Italia”, come - collettivo spirituale e morale - che tende a costituirsi come - baluardo di coscienze -, ha come centri attivi di resistenza e opposizione le fabbriche e l’università frequentata da quei giovani che sui banchi di scuola erano stati educati da insegnanti come Umberto Cosmo e Augusto Monti, ed ora attingevano alla parola e all’esempio di docenti come Gioele Solari, Francesco Ruffini, Lionello Venturi.
Antonicelli fu allievo di Umberto Cosmo e frequentò Augusto Monti, entrambi professori al liceo d’Azeglio a Torino, e proprio attorno al Monti si compose a partire dal 1928 un “collettivo spirituale e morale”, un gruppo cui presero parte Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Cesare Pavese, Massimo Mila, Sturani e lo stesso Antonicelli; luogo d’incontro era il caffè Rattazzi e come ricorda Bobbio: “Monti... muoveva i fili della conversazione, che non era necessariamente politica...
La lezione del Rattazzi consistette, almeno per me, nel farmi toccare con mano il distacco tra la cultura accademica che si fucina nelle scuole, e quella milititante, che si forma tra compagni e maestri scesi dalla cattedra... nel premunirci tutti quanti dalla malattia del sussiego”.
Ecco la lezione del Monti: la pratica della libertà di contro alla “malattia del sussiego”, e analoga fu la lezione di Cosmo, “uomo cresciuto nella libertà”, il quale, destituito nel 1926 dalla cattedra di Lettere italiane al d’Azeglio per una generica incompatibilità tra il suo pensiero e quello del regime, così si espresse: “... auguro all’uomo che salirà sulla cattedra dalla quale io sono costretto a discendere di portare su di essa la libertà e la dignità con le quali io l’ho per tanti anni occupata”.
Nella galleria dei personaggi fotografati da Antonicelli compaiono tutti questi nomi e fu per merito di Antonicelli che questo “collettivo spirituale e morale” si poté ricostituire ogni estate, a partire dal 1935, a Sordevolo nella villa di Annibale Germano, suocero di Antonicelli:
“Ci fu un tempo, difficile da dimenticare, in cui un piccolo gruppo di amici fidati si ritrovava con il più spontaneo piacere per liberare l’animo dall’odioso peso del sospetto, del silenzio prudente, delle preoccupazioni e dei pericoli improvvisi. ... Il tempo cui alludo fu quello del fascismo.”
Il gruppo era quello che di solito si ricostruiva ogni estate nel biellese, a Sordevolo e a Pollone. Due erano i ritrovi principali: la villetta abitata, credo dal 1934, da Benedetto Croce a Pollone e la villa da molto più tempo di proprietà di Annibale Germano a Sordevolo. La prima era meta di illustri visite la seconda non meno, in parte come riflesso o appendice della prima. Della seconda posso dire che... ognuno... poteva parlare in libertà, anche se legato con qualche vincolo al regime; tuttavia la vera confidenza in fatto di politica era ristretta a pochi frequentatori abituali.
I tutti: Simoni, Pastonchi, Bontempelli, Linati, Tessa, Gadda, Conti, Della Corte, Bernardelli, Quadrone, Cosmo, Falco, Salvatorelli; i pochi: spiccava Gustavo Colonnetti. Compaiono altri nomi, ricompare quello di Cosmo, personaggi fra loro legati da una “comunione di coscienze”, legame che Antonicelli vede in qualche modo simboleggiato dalla strada che unisce Pollone a Sordevolo: “Topograficamente la panoramica strada serpeggiante fra i due paesi può segnare il legame fra i componenti del gruppo”.
da Franco Antonicelli, Galleria di simboli, Ed. Zero Gravità 1999, 1a Edizione
Testi a cura di Marzia e Raffaella Barberis
Franco Antonicelli
Studioso, critico, poeta, saggista, editore, oratore, uomo politico nel senso più esteso del termine, vale a dire guida disinvolta di ogni conversazione, ma anche uomo d'azione capace di interventi rischiosi nel cuore delle vicende civili; e conversatore stupendo per l'estensione di voce - dai toni di rigore e dell'indignazione alle invenzioni di uno humor inarrivabile; Franco Antonicelli fu anche fotografo e disegnatore.
Bisognava averlo conosciuto bene per sapere che tutte le figure che egli impersonava, apparentemente così distanti l'una dall'altra, si componevano nell'unità di un unico, irripetibile, sovrano personaggio.
Era uno dei pochi capaci “di difendere la propria natura” - come chiedeva Giaime Pintor - e dunque di esistere e di avere peso in un'età che cancella la personalità sotto le etichette e dietro i cancelli di schemi preordinati.
Fedele a se stesso e alle sue origini, corse liberamente il rischio della dispersione, vivendo l'avventura, ricca di nobili ascendenze culturali, di colui che "ama ciò che fa” - come dice Burckhardt del grande dilettante -, e che fa quindi ciò che ama. Nessuna sorpresa, dunque, che rinviasse a “dopo” l'espressione compiuta di se stesso, non perché distratto da un fiore o da una rondine (o forse anche), ma perché occupato con carattere d'urgenza dai compiti dell'attualità storica che assolveva “sempre bene, ma il più delle volte per richiesta altrui, solo per mio infervorato (e talora infastidito) consenso; di rado di mia elezione (salvo le azioni politiche)” - come ha lasciato scritto con una sincerità di cui dovrebbero far tesoro i causidici dell'impegno perfetto.
Franco Antonicelli amava tutto e avrebbe voluto fare tutto. Tendeva a una “umanità integrale” e la cercò nella vita pubblica e nella vita privata.
L'”opera” stava davanti, era tutto da cominciare. Ma c'erano priorità da rispettare: il carcere, il confino, un tempestoso comizio contro il governo Tambroni, le lotte degli operai di Torino, Genova, Livorno, venivano prima di ogni altra cosa.
Un saggio su Villon, il profumo della Lantana Camara (fiore mediterraneo), dovevano aspettare. Ma intanto prendeva appunti, accumulava appunti, il suo tavolo di lavoro scompariva sotto gli appunti di una interminabile preparazione. Erano appunti d'ogni genere, diari, annotazioni frettolose, epigrammi, fotografie, disegni. L'”opera” sarebbe nata da quell'accumulo di appunti. Ma in essi si erano espressi, e per un attimo appagati, la curiosità, l'intelligenza, lo sguardo di Franco Antonicelli.
Se fosse anche sguardo, e mano, d'artista, diranno altri.
Franco Antonicelli riuscì a fissare i fuggitivi fotogrammi del vivere, mosso da un impulso in cui si univano il letterato, l'esteta, il moralista, lo storico, sempre assistiti dall'uomo di spirito.
Giulio Bollati
SFOGLIA "FRANCO ANTONICELLI GALLERIA DI SIMBOLI"
https://issuu.com/carlottacernigliaro/docs/f._a._ristampa_3-2020
Zino Zini
Scrive Bobbio: «Né Cosmo né Zini ci parlavano di politica... ma la loro presenza era di per se stessa un ammonimento, una vivente smentita alle insolenze che venivano vomitate ogni giorno sugli oppositori... e un invito a non indugiare nel conformismo, a non lasciarci adescare dalla propaganda».
Zino Zini, insegnante di storia e filosofia al Liceo d’Azeglio, socialista, si era schierato come consigliere comunale a Torino col gruppo dei comunisti e aveva collaborato a L’ordine Nuovo. Nel 1921 apparve un suo opuscolo di carattere filosofico, Il congresso dei morti, scritto pacifista di protesta contro l’inutilità delle guerre: nella valle di Giosafat vittime e carnefici si radunano a discutere circa la responsabilità di milioni di stragi. Alessandro Magno, Attila, Napoleone: tutti giustificano la propria condotta di fronte a Cristo, ma l’unico ad aver agito secondo moralità è stato un soldato romano, il legionario di Lambessa il quale, contro la guerra e la prevaricazione, professa la sua sottomissione a Cristo. Zini come maestro di anticonformismo e moralità: Antonicelli lo ricorda come “scrittore e filosofo, o meglio moralista, che fu maestro a molte generazioni di scolari”.